Sfinimento, ansia, insonnia: quando il lavoro “brucia” le persone.

Un tema poco discusso e talvolta addirittura ignorato fino a pochi anni orsono è quello che riguarda il benessere delle persone sul luogo di lavoro.

Il problema del malessere psicofisico connesso all’attività lavorativa fu individuato per la prima volta nel 1980 dallo psicologo Herbert Freudenberg, che studiò la condizione di forte stress nelle helping professions, ovvero le professioni con spiccata attitudine all’aiuto e all’assistenza di altri soggetti (poliziotti, operatori sanitari…). Bisognerà attendere il 2021 per vedere riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità lo stress da lavoro nell’elenco ufficiale delle malattie, con la denominazione di sindrome del Burnout.

Burnout – la cui traduzione letterale dall’inglese è “bruciato – è il termine utilizzato per identificare lo stato di disturbo psicofisico caratterizzato da stress cronico strettamente associato all’occupazione professionale del soggetto che genera demotivazione, apatia, delusione e forte calo della produttività.

Le cause più comuni di tale disturbo psicofisico hanno origine da:

  • fattori personali, come ad esempio abnegazione al lavoro, eccessivo autoritarismo, porsi obiettivi irrealizzabile, iperattività;
  • fattori sociali, relativi all’età del soggetto, allo stato civile e al genere. In particolare, si sottolinea come la sindrome in questione colpisca principalmente i più giovani e durante i primi anni di carriera;
  • fattori strettamente connessi all’occupazione del soggetto, come la mancanza di stimoli, sovraccarico di lavoro da svolgere, orari lavorativi eccessivi, retribuzione non consona.

Per meglio comprendere quanto la definizione di “burnout” calzi alla perfezione con la condizione psicofisica dei soggetti che ne soffrono, basti pensare che i principali sintomi sono la sensazione di sfinimento, l’insonnia e i risvegli notturni, panico, ansia, svalutazione di sè, distacco emotivo, irritabilità; tutti gravi malesseri che, oltre ad incidere sulla vita del soggetto, diminuiscono la produttività, generando un danno all’azienda.

Ciò che in particolare è fondamentale rilevare è come la sindrome in esame sia spesso causata involontariamente dall’azienda stessa che volendo ottenere la massima resa del dipendente, in realtà ottiene l’affetto contrario: lo sfinimento, l’improduttività e la perdita definitiva della risorsa, che deciderà nella maggior parte dei casi di cercare altre opportunità professionali.

In un mondo in cui finalmente si inizia a considerare il benessere delle risorse che prestano la propria attività professionale in un’organizzazione, vi è da sottolineare come nei fatti ben poche aziende siano attente alla salute mentale dei propri dipendenti non considerando quanto quest’ultima sia strettamente connessa alla produttività e, di conseguenza, alla crescita e allo sviluppo dell’impresa stessa. Basti pensare che da una ricerca condotta da BVA Doxa per Minwork è emerso come quasi il 50% degli italiani soffra frequentemente di disturbi strettamente connessi al Burnout. Inoltre, dal sondaggio condotto dal Global Welbeing Survey 2021, è emerso come l’82% delle aziende intervistate considera il benessere dei dipendenti come una priorità, ma solo il 55% delle stesse possiede strategie finalizzate a prevenire disturbi mentali. Dato che ancor di più permette di comprendere la portata del fenomeno riguarda il fatto che l’85% delle persone intervistate per la ricerca condotta da BVA Doxa per Minwork ha dichiarato di considerare il proprio benessere nel contesto lavorativo di appartenenza. Come anticipato, inoltre, tra le cause che maggiormente incidono sul Burnout vi è l’età dei soggetti colpiti, ovvero i più giovani all’inizio della carriera. Secondo la ricerca, ben il 49% degli under 34 intervistati ha dichiarato di essere stato costretto a lasciare il lavoro per preservare la propria salute mentale.